Descrizione
Pievefavera romana e medievale – Angelo a. bittarelli
” Come le grandi città, come le nazioni di antica storia, Pievefavera ha la sua epopea. Ma Pievefavera non è Atene, né Roma e la sua epopea non fu cantata dagli antichissimi poeti e neppure ha per tema la fondazione del paese ma i suoi fondatori “.
Così Angelo A. Bittarelli sceglie di iniziare l’opera attraverso la quale si pone come primo cantore della storia di una piccola realtà, quella di Pievefavera, le cui origini affondano nel glorioso passato romano della penisola.
“Ci mancò poco che Camerino si chiamasse Roma!”, afferma Bittarelli, il quale narra di come, secondo le fonti, il fiume Chienti si chiamasse anticamente Rubicone, il fiume sulle cui rive fu scritta la storia del futuro impero romano. Un passato illustre che vede Faveri – antico nome romano di Pievefavera derivato dal suo fondatore Faberius – un centro economicamente e culturalmente vivace.
La posizione strategica del luogo – che si trovava nella strada di congiunzione tra la Flaminia (che da Foligno saliva a Colfiorito e scendeva, per la Valsantangelo, a Muccia, a Camerino) e la trasversale che da Urbs Salvia si snodava per Ricina, Osimo, Ancona – fa sì che Faveri (o Faveria) sia in origine una stazione di sosta, detta mansio. Essa rappresentava anche uno snodo cruciale per la fitta rete di poste che permettevano di spedire e far arrivare lettere e dispacci ufficiali in tutto l’impero.
Successivamente, il nucleo cominciò a crescere, accogliendo nuovi abitanti dalle terre limitrofe, attratti dalla possibilità di far nascere in loco attività redditizie come botteghe, tabernae per il pernottamento, ricoveri per i cavalli (murationes) ecc.
Inizia così la storia di Faveri, o Faveria, che in epoca medievale si sposterà dal fondovalle al colle sovrastante. Caduto l’impero romano, giunti i barbari, l’insicurezza delle vie e le difficoltà difensive costringono la gente ad aggrupparsi sui colli e a chiudersi entro mura castellane.
Sorgerà così il castello di quella che sarà chiamata Pievefavera (da “plebs faveria”, popolo di Faveria).
Bittarelli si sofferma sull’esistenza di parole di origine longobarda tra i toponimi relativi al territorio di Pievefavera, per testimoniare come anche il piccolo nucleo abbia avuto contatti con il popolo che a partire dal VI sec d.C. si insedia nell’Italia centro-settentrionale.
La grande storia tocca anche le realtà più piccole, mutandone i connotati, le funzioni, le dinamiche sociali, economiche e culturali, a cui fanno seguito cambiamenti di tipo urbanistico e architettonico.
Partendo dai grandi cambiamenti che hanno interessato il territorio italiano nel corso dell’Alto medioevo, Bittarelli ne evidenzia le conseguenze sul contesto locale: attraverso fonti archeologiche ed architettoniche egli mostra al lettore come i luoghi e le comunità riescano a mutare nel tempo e, proprio per questo, a sopravvivere al tempo stesso.
È il caso del tempio pagano dedicato al dio Marte, che diventa un santuario dedicato a San Michele, centro di culto importantissimo nel quale convergono fedeli da tutta la zona.
Egli presenta i nomi illustri la cui storia si è intrecciata con il territorio di Faveria – è il caso dell’illustre famiglia dei Varano, le cui sorti Bittarelli segue con particolare attenzione, o di Varino Favorino, “il più illustre figlio di Pievefavera” – ma ci parla anche di ciò che “oggi a noi piacerebbe conoscere”: la vita quotidiana, l’economia, gli usi e i costumi, dandoci l’occasione di immaginare come poteva essere vivere a Pievefavera più di un secolo fa.
L’opera è corredata da quello che Bittarelli definisce un “viaggio fotografico”, perfetto corredo del viaggio che, grazie a lui, permette al lettore di osservare con sguardo nuovo le mille sfaccettature e i mille volti di un paese e di una storia altrimenti sconosciuti.
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